Un mondo di spie: il patologico fascino del gossip, così come quello della morte

Pensaci. Siamo tutti osservatori, e allo stesso tempo, siamo tutti osservati.

Se c’è una cosa che più mi sconcerta nella vita (oltre alla maleducazione e all’eterna disputa sull’ananas sulla pizza) è (oserei chiamar)la ‘comodità’, la naturalezza, la compiacenza che alcune persone hanno nel parlare delle vite degli altri, sopratutto di quelle che non conoscono.  

Gli antropologi ci spiegano oggi che il gossip ha origini piuttosto antiche e che proprio quest’ultimo è stato il motore dell’intelligenza umana, almeno in relazione allo sviluppo delle nostre capacità cognitive, per capire il comportamento degli altri esseri umani. 

“Le creazioni sociali umane hanno origine nella capacità di raccontare storie e nel convincere gli altri a crederci.”

È affascinante leggere e scoprire come gli studiosi abbiano cercato di dare a quello che oggi chiamiamo ‘inciucio’ un’accezione quasi positiva, è meno affascinante invece scoprire e constatare con delusione che le persone usano questo mezzo senza preoccuparsi troppo dei suoi effetti collaterali. Se quello che ho appena scritto ti ‘triggera’, allora sei nel posto giusto.

Ti sei mai chiesto cosa succede quando l’osservazione diventa ossessione? Quando il confine tra curiosità e invasione viene superato senza che ce ne rendiamo davvero conto? 

Esiste una canzone che, secondo me, lo spiega proprio bene. 

‘Spies’ potrebbe riflettere sulla vulnerabilità che si prova quando ci si sente esposti agli occhi degli altri. Mentre proviamo piacere nel raccontare e ascoltare storie altrui, mentre ci affrettiamo a dare il nostro richiesto e atteso giudizio, mentre godiamo o ci scandalizziamo, potremmo davvero chiederci: qual è il prezzo di questa curiosità morbosa? 

Sia chiaro, ai Coldplay non importava affatto parlare di gossip, neanche a me onestamente nel senso più becero del termine, ma oggi non posso fare a meno di accostare quel senso di inquietudine, che è caratterizzante del brano, all’esperienza di molte persone che vivono quotidianamente la pressione di dover apparire perfetti in una società che non perdona errori o debolezze. 

Lo dicono chiaramente: “I awake to see that no one is free.” Nessuno è al sicuro quando l’ossessione per le vite degli altri diventa un gioco da tavolo.
Si parte dalla curiosità e si può anche voler arrivare al controllo. E quando la narrazione si fa morbosa, quando la vita di qualcuno diventa il tuo intrattenimento, il confine tra realtà e spettacolo si mescola pericolosamente. Le parole della canzone esprimono quel disagio derivante dal sapere che ogni gesto, reazione o qualsiasi altra cosa può essere notata e, in qualche modo, interpretata o manipolata da chi ci osserva. Chi racconta lo sa che ha sempre il potere di scegliere cosa mostrare e cosa omettere, trasformando la verità in una versione più utile, più sensazionale, più appetibile. Ma che tipo di potere è quello che si nutre di supposizioni arbitrarie? 

C’è qualcosa di inquietante nella facilità con cui il dolore diventa intrattenimento, nella naturalezza con cui si trasformano voci di corridoio in storie da consumare davanti al caffè e alla sigaretta. 

Così, senza nemmeno accorgersene, si passa dall’osservare al divorare, dall’informarsi all’essere famelici delle vite degli altri, come se fossero episodi di una serie di cui ci sentiamo spettatori privilegiati, quelli da prato gold per intenderci.

Ma sai tutto ciò che cosa mi ricorda? La morte. 

Hai mai visto persone affrettarsi, precipitarsi, incuriosite sul luogo del delitto? O quello di un grave incidente? O tutta quella marea di persone mai viste prima in una camera ardente giunte per vedere ‘il morto?’.
Non importa se non ci riguarda, non importa se non ci tocca personalmente. È come se l’urgenza di capire, di conoscere, di sapere, prima di tutti e più di tutti fosse più forte del rispetto per la sofferenza altrui, più forte del rispetto verso la morte stessa. La curiosità morbosa che si fa più forte diventa l’obiettivo stesso: non più il desiderio di conoscere la verità, ma il bisogno di alimentarsi di ciò che dovrebbe rimanere intatto, di ciò che ci spaventa perché ci riguarda più di quanto ci piaccia ammettere. 

Proprio in quel momento ci si trova di fronte a un paradosso: mentre la curiosità si fa sempre più irrefrenabile, esiste il desiderio (di tutti noi) di nascondere, di proteggere ciò che è privato. Un altro elemento rilevante in Spies è proprio questo: la voglia di rimanere nascosti, di difendere una parte intima di sé, e l’inevitabile realtà di dover interagire con il mondo esterno. La lotta tra il bisogno di proteggere la propria individualità e il senso di impotenza di fronte al giudizio e all’influenza degli altri. 

È un dilemma esistenziale: da un lato, il desiderio di preservare la propria vita e il sacro diritto di sbagliare, dall’altro, la costante invadenza, l’irresistibile pressione di dover essere visti, giudicati e osservati. 

In questa canzone, la lotta tra la necessità di difendersi e quella di essere accettati è costante, e ciò che emerge è una verità scomoda che fa proprio male: il nostro desiderio di essere visti, di fare parte della narrazione degli altri, può anche significare sacrificare parti di noi stessi che non vorremmo mai esibire.

In questo gioco del vedere, spiare e raccontare, ci si dimentica troppo spesso del prezzo che si paga. La curiosità, quella che ci spinge a curiosare dietro le quinte delle vite degli altri, non è mai innocente. La verità, forse, sta nel sapere che, in questa lotta tra protezione ed esposizione, possiamo scegliere di fermarci. Fermiamoci prima di parlare, prima di raccontare, prima di emettere il nostro giudizio.

Impariamo a rispettare ciò che non ci appartiene.