Tempi duri per gli uomini, ma mai duri abbastanza. Eh, lo so, non si può più dire niente.
“Della mia fica farò una bandiera che brillerà nella notte nera” non è mai stata così attuale e azzeccata. Con queste parole, Giulia Mei ci ha consegnato molto più di una provocazione: un grido di autodeterminazione. Bandiera è una canzone nata da una paura, quella di tornare a casa avvertendo il pericolo di essere seguite e trasformata in un inno alla libertà, che rivendica il diritto di esistere senza paura. Giulia ci racconta che la sua canzone è stata una maturazione personale: un modo per riprendersi le parole e, con esse, la propria identità. Ma Bandiera non è rimasta chiusa nella sua storia individuale.
“Credevo di essere libera e non lo sono”. Di che libertà siamo parlando? Di quella che non regge se per strada dobbiamo cambiare percorso, se sui social (e ovunque) il nostro corpo diventa terreno di consumo, se il femminismo viene liquidato come una guerra contro gli uomini.
Non serve nominare scandali recenti per capire che il nodo è sempre lo stesso: il corpo femminile percepito come disponibile, accessibile, pubblico. Una convinzione che non nasce con internet ma che attraversa secoli di patriarcato e che oggi trova soltanto nuove forme per manifestarsi.
Dovrebbe esistere una canzone per materializzare il disgusto che ho provato quando sono entrata dentro “Mia moglie”, ma la verità è che non serve evidenziare l’essere disgustati dalla quantità di foto di nudo, dalle tipologie di angolazioni diverse dei genitali femminili, dalla sessualizzazione di foto quotidiane e di normale intimità. Il corpo femminile non mi disgusta affatto.
Mi ripugna l’assenza di mostri, l’assenza di eccezioni da cronaca nera: parliamo di uomini comuni, quello che ti dà il buongiorno al bar, il collega di scrivania, il medico che deve visitarti, tuo fratello, tuo padre. Volevo capire fino a che punto potesse spingersi un uomo nel vantarsi, nello svendere, nell’impugnare come trofeo il corpo della donna che chiama “sua moglie”.
Giulia Mei ha strappato la parola ‘fica’ alla vergogna e alla volgarità, togliendola dalle mani di chi l’ha sempre usata per ridurre e non per elevare. La porta in alto, sotto una luce che brilla nel buio: ciò che era insulto diventa orgoglio.
Se è vero che alle donne viene chiesto continuamente e sempre di spiegare, giustificare, educare, allora il rischio è di perpetuare la stessa dinamica di squilibrio che si vuole combattere. La libertà non può essere un compito a carico di una sola metà del mondo. La lotta per la parità di genere è anche e soprattutto responsabilità degli uomini, perché è un movimento che libera tutti: spezza gabbie, ruoli soffocanti, doveri imposti.
Bandiera ammette che la libertà non è ancora un dato acquisito, ma un cantiere aperto, una fatica e una conquista quotidiana. Ci ricorda che il linguaggio è terreno di lotta e che anche una parola può farsi rivoluzione.
E allora sì: della nostra fica, delle nostre voci, delle nostre vite possiamo fare bandiere. Perché brillino nella notte nera, per noi e per chi verrà dopo.

